Breve “processo” al celebre fotografo della ragazza afgana
Recentemente il celebre fotografo Steve Mc Curry, noto ai più per il ritratto di Sharbat Gula, la ragazza afgana dai penetranti occhi verdi che nel 1985 invase il mondo “a bordo” della copertina del National Geographic, è stato al centro di una polemica legata ad una sua fotografia, esposta ad una mostra di Venaria Reale (Torino). Si è già detto e scritto molto su questo argomento e non voglio approfittarne per ripetere concetti già espressi e che potete leggere nelle sedi originarie seguendo i link. Mi limito ad alcune mie personali riflessioni, che voglio condividere con voi.
I fatti
La fotografia in apertura di questo articolo, scattata a Cuba da Steve McCurry, è stata esposta ad una mostra in corso presso Venaria Reale (TO). Tra i tanti visitatori anche il fotografo Paolo Viglione, che osservando attentamente la stampa di dimensioni colossali (circa due metri di lato lungo) si accorge di un pezzo di palo evidentemente clonato in malo modo, che si sostituisce al piede di un malcapitato passante. Ne nasce un articolo pubblicato sul blog di Viglione, che si diverte a raccontare la vicenda senza polemica e che nel giro di poco diventa cliccatissimo.
Commenti successivi al post evidenziano come non soltanto il palo, ma anche altri elementi, risultino impiastricciati ed incoerenti, figli probabilmente di ulteriori maldestri interventi di postproduzione. Così si notano alterazioni sui pilastri del portico e sullo sfondo, dove campeggiano pezzi di un lampione clonato ed in genere una certa confusione di dettagli “timbrati” qua e là.
Ovviamente, trattandosi di uno dei fotografi più noti del pianeta, nonchè membro di Magnum Photos (la più importante agenzia fotogiornalistica al mondo) è evidente che la questione susciti un certo interesse mediatico.
Anche Michele Smargiassi si interessa alla vicenda, pubblicando un interessante pezzo su Fotocrazia, seguito a stretto giro da una intervista rilasciata dallo stesso McCurry, nella quale il fotografo spiega l’accaduto (o almeno ci prova).
La questione
Qual è il punto di tutto questo bailamme? Quello di stabilire se un intervento del genere possa considerarsi legittimo o meno, anche alla luce del fatto che ad operarlo è uno dei più noti fotografi al mondo, sebbene attraverso i suoi tecnici di laboratorio, e che per decenni è stato considerato un fotoreporter, benchè lui oggi si definisca uno storyteller.
In “Processo alle fotografie – Fotografia e postproduzione, una battaglia senza fine“, ho affrontato specificamente la questione relativa alla “postproduzione manipolante” – quella, per intenderci, che altera la trama nativa dei pixel di una fotografia digitale – per convenire che può esistere uno spazio lecito anche per il fotomontaggio. Non si tratta, dunque, di criminalizzare a priori la pratica, ma di capire a cosa essa sia finalizzata e che ruolo abbia sulla percezione dell’osservatore. Il tutto sulla base concettuale della dicotomia tra il bacio di giuda e il cavallo di troia di Smargiassiana memoria.
I fotomontaggi sono sempre esistiti, benchè la maggior parte delle persone sostenga che essi siano figli della fotografia digitale. Certamente oggi sono più semplici da realizzare, ma non per questo più efficaci in senso assoluto. Basta guardare la foto in questione, infatti, per rendersi conto come anche con l’ultima versione di Photoshop ed il computer più performante, sia possibile realizzare lavori assolutamente mediocri e approssimativi. Certamente, va detto, l’intervento sulla foto di Cuba è risultato visibile a Viglione per via delle proporzioni mastodontiche della stampa, e sarebbe passato inosservato su un classico 30×40. Ma non vale come scusante, atteso che McCurry ama le stampe imponenti e celebrative, dunque il lavoro andava fatto meglio.
Ma torniamo allo scopo dell’intervento.
L’autore, nell’intervista rilasciata a Fotocrazia, dice non sapere cosa sia successo esattamente: “Credo ci sia stato un tentativo di semplificare lo sfondo” afferma, attribuendo il fatto ad un errore del suo laboratorio, precisamente di un tecnico che ora non lavora più con lui (licenziato). Il maestro del colore si giustifica affermando di non aver potuto visionare prima le stampe per la mostra di Torino, come invece è solito fare, perchè si trovava in Messico e che non l’avrebbe mai autorizzata se avesse avuto modo di verificarla prima.
In un primo momento, dunque, sembra di intendere che McCurry aborrisca l’intervento (anche se è lecito domandarsi come mai un tecnico si prenda una simile libertà in via del tutto autonoma), successivamente però, interpellato sul punto, egli dichiara di ritenere legittimo intervenire sulle immagini, per migliorarne l’equilibrio complessivo ma ciò senza necessariamente spostare elementi dell’immagine. L’autore, dunque, non soltanto è solito ordinare ai suoi tecnici interventi di maquillage fotografico sulle sue immagini ma sembra addirittura lasciare aperta la porta al fotomontaggio, alla manipolazione della trama del pixel, quando questa sia l’unica via possibile per ottenere in postproduzione il risultato voluto.
I risvolti probatori
L’impressione di cui sopra non è infondata, come dimostrano alcune altre immagini di McCurry pubblicate da Petapixel, grande blog di fotografia gestito a più mani, scovate da utenti di internet e che ripropongo di seguito.
Le due immagini che seguono sono prese direttamente da due siti dello stesso McCurry, che evidentemente non ha avuto cura di controllare che ne venisse messa in circolazione una versione soltanto. (Foto A – Foto B).
Facendo un rapido confronto si nota, nell’immagine sotto, un allargamento dell’inquadratura a destra, con l’eliminazione del braccio del bambino fuori campo, utilizzato addirittura per una operazione di “ricostruzione dell’arto” dell’altro bambino, nonchè la completa eliminazione del bambino a sinistra, alle spalle di quello che calcia il pallone.
Altro esempio, ancora da verificare del tutto ma tendenzialmente attendibile, riguarda la foto di un risciò, anch’essa scovata su internet in due versioni, questa volta da Gianmarco Maraviglia.
Nell’immagine sotto si nota distintamente l’eliminazione di due persone dal risciò e di diversi elementi nello sfondo.
Fino ad ora è l’immagine con il maggior grado di alterazione tra quelle scovate in rete.
La sentenza
La vicenda, devo ammetterlo, mi lascia piuttosto perplesso.
Interventi del genere – relativamente innocui per un fotoamatore che elimina elementi di disturbo dalle sue composizioni – assumono connotati di tutt’altra natura quanto sono praticati da un’icona della fotografia, che per anni ha associato il suo nome al reportage, un genere che per definizione non ammette trucchi ed esige trasparenza assoluta. E se è vero che oggi McCurry è molto più autonomo nel fotografare e, come lui stesso afferma, non segue più la notizia, rimane il fatto che il suo “stile” è sempre stato piuttosto chiaro ed individuabile. In altri termini, una fotografia di McCurry si distingue sempre, indipendentemente dal fatto che faccia parte di un reportage di guerra o di un viaggio di svago, per la cura estrema della composizione, i colori rotondi e la tridimensionalità. Non è di oggi la considerazione critica, più volte esposta da Sandro Iovine in tempi non sospetti, secondo la quale la realtà di McCurry è troppo bella per essere vera. Fotografie meravigliose che mal si coniugano con l’idea tradizionale di reportage: difficile che la strada offra sempre situazioni così perfette e pulite.
Ma se fino a ieri tale considerazione si limitava al genere – nel senso di avere come corollario il semplice spostamento delle immagini di McCurry dal reportage puro ad un genere più costruito, quasi pubblicitario, ma pur sempre rispettoso del noema barthesiano (le fotografie provenivano sempre dalla realtà, benchè più o meno preordinata) – oggi assume connotati ben diversi. La fotografia di McCurry si con-fonde con la computer-grafica.
Vero è che numerosi artisti utilizzano la fotografia come punto di partenza, per poi giungere ad interessantissime espressioni artistiche che potremmo definire ibride – esemplificativo è il caso di Dianne Blell e del suo lavoro Desire for the Intimate Deity, di cui pure parlo in Processo alle fotografie e nel quale l’autrice realizza delle opere visuali nelle quali la fotografia assume connotati del tutto sui generis – ma il punto è sempre l’onestà artistica dell’autore nel palesare la sua tecnica.
Personalmente ho spesso mostrato ai miei allievi dei corsi di fotografia fotografie di McCurry, esempi fino ad oggi indiscutibili di grande capacità compositiva espressa in contesti dove non è facile mettere ordine con la macchina fotografica. La fotografia, infatti, rispetto alle altre arti visive come il disegno o la pittura, deve fare i conti con la realtà, e se un pittore può disporre a piacimento gli elementi sulla tela o anche inventarli, il fotografo ha un ambito operativo assai più risicato. Per questa ragione la composizione in fotografia è forse l’aspetto più importante e più personale per il fotografo, che attraverso essa ci mostra il suo punto di vista verso il mondo. Ciò non significa escludere l’interazione con il soggetto per renderlo più funzionale all’idea fotografica – anche se così facendo si perde la spontaneità dell’istantanea – siamo ancora nel campo delle scelte fotografiche e di uno stile narrativo piuttosto che di un altro. Ma di fronte alle manipolazioni di McCurry mi chiedo dove finisca la composizione fotografica ed inizi il disegno, quanto c’è dello sguardo di un fotografo sul mondo e quanto, invece, della rappresentazione grafica di un mondo soltanto ideale.
La ricerca dell’equilibrio nella composizione è stata, ed è ancora, un’ossessione per molti fotografi, alcuni dei quali hanno lasciato ai posteri documenti di grandissimo livello. Ma di fronte a questa eliminazione di dettagli e particolari “di disturbo” attraverso la grafica, penso più alla pittura di Edward Hopper piuttosto che alla fotografia di H. Cartier Bresson, indiscutibilmente il maestro della composizione e dell’attimo irripetibile.
Quando ti chiami McCurry hai una responsabilità enorme verso gli osservatori, perchè la tua fotografia, per quanto curata e perfetta, è sempre stata considerata genuina, almeno nel rapporto con il referente. Quanto è emerso grazie al post di Viglione, invece, ci mostra un altro Steve McCurry, che dipinge le sue fotografie, spostando e cancellando elementi fino a pervenire ad un risultato ideale che, a questo punto, è solo suggerito dalla realtà da lui vissuta e che, ciononostante, continua ad essere proposto (e venduto!) come fotografia.
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